Amnistia e indulto, il Fascismo li promulgava ogni anno e mezzo

Amnistia e indulto, il Fascismo li promulgava ogni anno e mezzo

14 gennaio 2018

Con le riforme del processo penale e l’emanazione dei decreti governativi per le carceri torna in auge il dibattito sui provvedimenti di clemenza. E nel coro quasi unanime de “in galera..in galera”.. solo nella voce del Partito radicale transnazionale che fu di Marco Pannella si può cogliere una nota stonata. Una nota che si chiama “amnistia”. E che nessuna orchestra politica osa suonare per paura di perdere consenso politico.

Pochi sanno però che l’amnistia fu uno dei provvedimenti governativi – allora funzionava così mentre oggi solo il Parlamento può emanarla – più usati dal Duce per sfoltire la sovrappopolazione carceraria.

E lo faceva quando la condizione delle carceri era invivibile. Circostanza che evidentemente premeva più a un regime autoritario che a una cosiddetta “democrazia reale” come la nostra.

Lo si legge nel dibattito alla Costituente nel 1947 quando venne affrontato l’articolo 79 che poi introdusse nella carta più bella del mondo questi istituti oggi così negletti.

E’ il 21 ottobre 1947, uno dei giorni decisivi per l’approvazione dell’articolo 79 della Costituzione e così parlava Giuseppe Persico, membro del partito socialista dei lavoratori, uno dei più scettici sui provvedimenti di clemenza in seno all’organismo che varò la Costituzione italiana:

“Su questo problema, che conosco per motivi di pratica professionale, ho avuto occasione di esprimere la mia opinione in scritti su riviste giuridiche ed anche in questa Aula, nella seduta del 19 luglio 1946.

Cioè, che l’amnistia e l’indulto devono essere discussi e approvati dalle Camere, e non sono atti che possono essere demandati al Governo; sono atti eccezionali che devono corrispondere a momenti e a necessità eccezionali. Non possiamo seguire la prassi fascista per la quale un anno sì e uno no si emanavano decreti di amnistia.

Durante il passato regime abbiamo avuto dieci amnistie in venti anni, di modo che, con ben congegnati sistemi di appelli e di ricorsi in Cassazione, si finiva per far sì che nessun delinquente, entro certi limiti, andasse mai in carcere, ciò che finiva per annullare il valore della legge: il valore morale, psicologico e giuridico.

I magistrati sapevano che dopo un dato periodo di tempo le loro sentenze sarebbero state poste nel nulla, tanto che presso alcune magistrature minori rimanevano sospesi migliaia di processi (ricordo infatti che alla vigilia del decennale presso la Pretura di Roma ben 12.000 processi erano rimasti sospesi), perché era certo che ben presto sarebbe venuta una benefica amnistia che avrebbe posto fine a tali procedimenti.”

All’epoca, e pochi lo sanno, l’unico a opporsi ferocemente all’introduzione di amnistia e indulto in Costituzione fu il giurista Giovanni Leone che anni dopo sarebbe diventato presidente della Repubblica italiana. Diceva che la clemenza doveva stare nelle leggi penali stesse e che non ci dovevano essere valvole di sfogo.

Secondo Leone “..l’amnistia dal Codice vigente è intesa come una forma di estinzione del reato. Ora, non è corretto stabilire che si possa in un determinato momento, sia pure per legge, togliere carattere di reato ad un fatto che nel momento in cui veniva commesso tale carattere aveva”.

Ma dalla seduta del 29 gennaio 1947 viene fuori dallo stenografico che “Togliatti rileva che le considerazioni dell’onorevole Leone possono essere teoricamente coerenti ed interessanti, ma le respingerebbe per un motivo politico, perché in Italia si è abituati a ricevere l’amnistia. È un fatto che in Italia, quando si è in carcere, si attende l’amnistia”.

Inoltre Togliatti pensava “… che le argomentazioni teoriche dell’onorevole Leone potrebbero reggere in un sistema giuridico perfetto, nel quale la pena sia adeguata al reato, che abbia un determinato carattere educativo e non soltanto un carattere punitivo, quando la pena sia applicata con eguale criterio in tutti i periodi della storia dello Stato ed in tutte le Regioni; ma ove si consideri l’attuale legislazione penale e la sua applicazione, appare evidente che l’amnistia debba essere mantenuta. Si pensi che sono previste pene altissime (ergastolo, 30 anni); che, per una quantità di reati le pene non hanno nessun carattere educativo; che le pene anche più piccole lasciano una traccia nella fedina penale e, quindi, nella vita successiva del cittadino. Tutto questo impone che, in un determinato momento, intervenga la misura non soltanto di indulto della pena, ma anche di cancellazione del reato, cioè di ogni conseguenza della condanna per il cittadino.”

Il costituente Paolo Rossi, che poi sarebbe diventato presidente della Corte Costituzionale era anche lui in disaccordo con Togliatti.

E infatti lo stenografico d’aula ricorda che Rossi osservava come “inoltre, per qualche esperienza in materia, che il criterio per cui è indispensabile talora stabilire pene evidentemente sproporzionate alla violazione di legge che si vuole colpire, non ha un fondamento giuridico. Occorre stabilire pene gravi per un semplice reato annonario, perché si sa che ogni due o tre anni vi sono delle amnistie. Il regime fascista ne ha fatto un abuso enorme. Fra l’ottobre 1922 e l’ultima amnistia fascista, vi sono state ogni due o tre anni delle totali complete sanatorie penali. Nella sua esperienza professionale ricorda il caso di un falsario, tante volte recidivo che era stato condannato complessivamente a 97 anni di reclusione. Ne ha scontati quattro o cinque, perché ogni tanto aveva delle amnistie.”

Per l’onorevole e avvocato Ernesto Carpano Maglioli “non pare si possa contestare la necessità di ricorrere a provvedimenti di amnistia e di indulto in determinate particolari circostanze come già detto. Non dico di arrivare a concessioni periodiche, come si è fatto in questi ultimi trenta anni, durante i quali ogni due anni si son concessi indulti ed amnistie.

Noi avvocati questo calcolo preventivo nei riflessi dei clienti possiamo anche averlo fatto. Sia consentito infine di ricordare che l’amnistia è, come motivo sussidiario, consigliata anche per sgravare gli uffici giudiziari di un lavoro ingombrante; la gran mole di lavoro pone sovente i grandi tribunali in condizioni di non funzionare o quasi ed allora la necessità di sbarazzare il terreno di processi che per il decorso del tempo hanno perduto la loro utilità”.

Un’altra obiezione fu quella del presidente dell’Assemblea Umberto Terracini del Pci: “L’inconveniente più grave e non rimediabile è un altro. È inevitabile che ci debba essere un lasso di tempo tra la decisione della Camera dei deputati e la decisione del Senato: non è possibile che le due decisioni siano prese simultaneamente. È inevitabile un certo distacco, anche per la natura del Senato, che esercita un controllo sopra l’attività legislativa della Camera, e anche per ragioni di indole materiale. Non è possibile che le due decisioni avvengano contemporaneamente. Vi sarà, quindi, sempre un intervallo di tempo, più o meno lungo a seconda della fretta o della diligenza di coloro che saranno chiamati a formare l’uno e l’altro ramo del Parlamento. Durante questo intervallo, che possiamo chiamare il «tempo di nessuno» cosa accadrà? È inutile negarlo: quello che accadrà (mi pare che lo abbia accennato anche l’onorevole Leone) sarà la paralisi nella giustizia. La giustizia si fermerà; non vi sarà tribunale, giudice istruttore, ecc., che, di fronte alla decisione già presa da una delle due Camere, non reputi conveniente l’attendere l’altra decisione. E questa potrà tardare due mesi, un mese, 15 giorni, secondo la fretta, la diligenza e le possibilità. Durante questo periodo l’attività della giustizia si arresterà, inevitabilmente. Nessuno può negare la gravità di un tale evento.

Un procuratore della Repubblica che debba emettere un ordine di cattura e sa che oggi vi è già una decisione di amnistia e che fra 15 giorni o un mese verrà la decisione definitiva, che cancellerà quel fatto dal novero dei reati, si asterrà dallo spedire l’ordine di cattura.

Voi opporrete che il tempo che intercederà fra l’una e l’altra decisione sarà breve. Me lo auguro, ma non ci credo. Ma c’è di più. Non sempre accadrà che la deliberazione del Senato sia in ogni parte conforme a quella della Camera dei deputati. Le due decisioni potranno essere difformi, e allora ci troveremmo di fronte o ad un conflitto negativo — se il Senato respingerà la proposta — o ad un conflitto parzialmente positivo, se il Senato dovesse in parte approvare e in parte modificare taluna delle disposizioni relative alla amnistia o all’indulto. E allora, mi domando, come questo conflitto sarà risolto? E quanto potrà durare?”

Nel corso del dibattito alla Costituente il problema del rapporto tra la magistratura e tutte le altre istituzioni, e non solo in materia di amnistia e indulto, fu più volte affrontato.

Allora come ora si temevano le incursioni delle toghe all’interno degli altri poteri dello stato e si lamentava la mutevolezza delle “mode giurisprudenziali”, ora giustizialiste ora lassiste.

Va detto che si parlava con minore soggezione psicologica da parte della classe politica nei confronti degli ermellini e di coloro che li indossavano. Ancora non esistevano gli “eroi nella lotta a..”, né i loro epigoni che hanno fatto carriera all’ombra delle bare.

Alla fine nella seduta del 29 gennaio 1947 il molto dibattuto e da taluni assai contestato articolo 79 della Costituzione venne approvato nella seguente formulazione:

“L’amnistia e l’indulto sono concessi dal Presidente della Repubblica su legge di delegazione delle Camere. Non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla proposta di delegazione.”

Poi nel 1992, sotto la spinta emotiva dell’inchiesta “mani pulite”, la legge costituzionale 6 marzo 1992, numero 1 ha modificato l’articolo in questa maniera:

“L’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. La legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la loro applicazione. In ogni caso l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge.”

Da allora solo nel 2007 si arrivò alla promulgazione di un indulto e mai di una amnistia. I politici e i legislatori decisero di lavarsene le mani del sovraffollamento carcerario e della impossibilità di mettere su piani credibili di edilizia penitenziaria.

Così di fatto negli scorsi 26 anni si è andati avanti con provvedimenti tampone quali i vari indultini e soprattutto confidando nella prescrizione che ogni anno, già nella fase delle indagini preliminari, inghiotte oltre il 70 per cento delle cento e ventimila ( e passa) cause penali che finiscono in cavalleria.

Per questo motivo la Cedu, Corte europea dei diritti dell’uomo, ci ha condannato centinaia di volte e pare che la cosa costi al contribuente una cifra non molto inferiore ai 200 milioni di euro annui. Anche se le cifre ufficiali vengono tenute rigorosamente nascoste.