Il caso Dennis Redmont e la lentezza della giustizia italiana

Il caso Dennis Redmont e la lentezza della giustizia italiana

04 gennaio 2018

Giustizia italiana (troppo spesso) lenta come una lumaca. Che sia in sede penale, civile o tributaria, la musica non cambia e le brutte figure dinnanzi all’Europa aumentano di volta in volta. Ultimo caso? La clamorosa vicenda che ha visto protagonista il noto giornalista americano Dennis Redmont, responsabile della Comunicazione al Consiglio per le Relazioni tra Italia e Stati Uniti e per 25 anni direttore dell’agenzia di stampa Associated Press.

Per lui infatti ci sono voluti addirittura 36 anni prima che l’Agenzia delle Entrate vincesse definitivamente in Cassazione, contro Dennis Redmont, una vertenza fiscale. Trentasei anni (Sic!), proprio così. Un ritardo che appare davvero ingiustificabile e che ora potrebbe esporre il nostro Paese ad un possibile giudizio davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo (non sarebbe certamente la prima volta).

Proprio per l’ansia e le preoccupazioni causate al contribuente dal lunghissimo protrarsi della vicenda. Incredibile è stato infatti il lasso di tempo intercorso – ben 17 anni – solo tra la decisione della Commissione tributaria di 2° grado di Roma del 1992 e quella della Commissione tributaria Centrale del 2009.

Basta anche solamente leggere alcune parti della sentenza della 5^ sezione civile della Suprema Corte –che ha accolto le tesi dell’Agenzia delle Entrate, confermando così il verdetto emesso 8 anni fa dalla Commissione tributaria Centrale che aveva respinto i ricorsi di Redmont – per rimanere interdetti dinnanzi a tanta lentezza. Per la cronaca, in precedenza il giornalista statunitense, aveva perso in 1° grado, ma vinto in appello.

L’Ufficio distrettuale delle imposte di Roma emetteva nei confronti del cittadino statunitense Redmont Dennis, esercente la professione di giornalista, più avvisi di accertamento relativi ad Irpef ed Ilor dovuta per gli anni 1981,1982,1983 e 1984, ritenendo che lo stesso fosse soggetto passivo di imposta in guanto residente fiscalmente nel territorio nazionale. Il ricorso però è infondato”. E vengono riportati vari motivi che argomentano questa decisione.

La Commissione tributaria centrale ha affermato, correttamente, che l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi legittima l’ente impositore all’accertamento d’ufficio del reddito imponibile e delle imposte dovute anche mediante l’utilizzo di presunzioni non qualificate. Ha invece ritenuto che il ricorrente avesse dimorato in Italia per più di sei mesi all’anno sulla base di plurime prove induttive, senza teorizzare, come sostenuto dal ricorrente, che l’accertamento della soggettività fiscale in Italia potesse essere affermata sulla base di presunzioni prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza”.

In sostanza, la sentenza impugnata afferma che il contribuente derivava i propri emolumenti dall’esercizio della attività di giornalista per conto della Associated Press, circostanza non controversa.

Ne risulta che i giudici di merito hanno implicitamente escluso che contribuente fosse un soggetto stipendiato dal Governo degli Stati Uniti, con conseguente irrilevanza, “della citata Convenzione tra Italia e Stati Uniti che esenta dalle imposte applicate in Italia esclusivamente salari, stipendi e simili retribuzioni pagati dagli Stati Uniti o da una loro suddivisione politica o territoriale, ad una persona che non sia un cittadino italiano o che non abbia la residenza permanente in Italia”.

Davvero una battaglia (persa) infinita per Dennis Redmont. E purtroppo non è la prima e non sarà l’ultima vittima delle lungaggini della giustizia italiana.