Il rabbino, il Papa e l’immigrazione

Il rabbino, il Papa e l’immigrazione

23 gennaio 2018

Per una volta i cristiani italiani si sentiranno più rappresentati dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che dal pontefice cattolico Papa Bergoglio.

Se non altro per la mancanza di ipocrisia con cui il primo, in un’intervista al “Corriere”, ha detto chiaramente che l’islam geopolitico è da temere, più che da esorcizzare, come ama fare papa Francesco, con lo slogan-mantra “religione di pace”.

In effetti, anche da molto prima dell’11 settembre 2001 a New York e, prevedibilmente, senza fermarsi a pochi giorni fa in Afghanistan all’hotel Continental, l’unica pace sinora è stata quella eterna donata soprattutto ai non islamici dai fanatici di Allah.

Poi c’è l’immigrazione in se stessa. Che non può essere subita come una punizione divina o vissuta come un dono di nuove risorse umane per un’Europa in crisi di nascite.

Da una parte una furba visione fideistica, che assomiglia a quella di Ponzio Pilato, dall’altra un approccio realistico.

Per Di Segni è evidente, lasciando da parte l’islam fondamentalista nell’enclave delle tante città europee, che le ondate migratorie incontrollate e non governate producano comunque disagi alla gente e reazioni anche xenofobe. Impossibili da reprimere solo varando leggi liberticide e santificando il politically correct.

Per papa Bergoglio, invece, siamo noi che dobbiamo farci carico sempre e comunque degli ultimi. Anche quando ci travolgono e non ci rispettano.

Totale? Nella logica da sistema binario delle intelligenze artificiali – o non – “Rabbino buono, Papa no buono”.