Totem e tabù: evasione fiscale e corruzione

Totem e tabù: evasione fiscale e corruzione

10 dicembre 2017

I pesci non sopravvivono se l’acqua è troppo limpida”. Questa metafora che ben potrebbe essere citata ogni qual volta in Italia si parla di lotta a qualche fenomeno criminale o semplicemente di malcostume e lo si fa in maniera ossessiva (specie dal lato mediatico), la coniò il grande Yamamoto nel famoso Hagakure, il cosiddetto codice del samurai, che venne fatto conoscere in occidente dallo scrittore giapponese Yukio Mishima.

La cosa ovviamente non va presa alla lettera per scatenare magari la reazione indignata di una qualche Rosy Bindi. Ma va tenuta a mente se vogliamo capire come mai l’Italia dal 1992 a oggi, cioè dallo scoppio del caso “mani pulite” in poi, sia andata sempre più declinando dal punto di vista economico, sociale e soprattutto politico.

Ci sono totem e tabù da rimuovere o almeno da riconoscere come tali.

La legalità oggi è diventata legalitarismo. Ed è stata trasformata in una categoria dello spirito da applicarsi soprattutto ai nemici politici o economici. Visto che il concetto di avversari o di concorrenti di impresa viene considerato obsoleto.

Il caso dell’accanimento giudiziario contro Marcello Dell’Utri, che la magistratura associata ha deciso di fare crepare in carcere nonostante abbia scontato oltre i due terzi della pena con cui è stato a suo tempo condannato definitivamente peraltro per un reato che in pratica non esiste (concorso esterno in associazione mafiosa) se non per gente come lui, è solo l’ultimo esempio.

Ma c’è qualcosa di ancora più ipocrita nella ossessiva e quotidiana campagna giornalistica contro la corruzione e l’evasione fiscale.

In Italia la prima spesso è stata indotta, quando ancora esisteva la distinzione tra propria e impropria, semplicemente per oliare una elefantiaca e parassitaria macchina statale e burocratica la cui sola esistenza è di fatto un invito a nozze per corrotti e corruttori.

L’evasione fiscale invece, che nel Bel Paese è semplicemente un fenomeno di massa, è stata usata come una sorte di legittima difesa “fai da te” contro uno stato tendenzialmente leninista fin dai suoi principi costituzionali cardine.

Una costituzione basata sul lavoro in cui è innalzato a compito dei poteri dello stato il rimuovere tutte le diseguaglianze sociali tra i cittadini e dove la parola libertà quasi non esiste fa pensare più alla Corea del Nord che agli Stati Uniti .

Va poi detto che la corruzione certi paesi, come l’Inghilterra, in pratica la rivendicano quando si tratta di vincere grandi commesse all’estero nei siti geografici del cosiddetto Terzo Mondo.

Anche per questi motivi alla fine c’è stata la Brexit. La Ue è considerata come una gabbia. Spesso anche di matti.

E non è un’iperbole: nel novembre 2013 il Financial Times metteva tra i propri highlights la richiesta all’ex premier Cameron, da parte degli industriali associati britannici, di avere una sorta di licenza di corrompere negli affari che si facevano in paesi come India e Cina.

Per il semplice motivo che altrimenti le commesse se le sarebbero aggiudicate i tanto legalitari (sul c.. degli altri) industriali tedeschi.

O gli americani, per i quali esiste la mediazione che di fatto sostituisce la tangente. Almeno per affari che non contrastino con il bene comune e gli interessi della nazione.

Quella che una volta anche qui da noi, all’epoca dello scandalo Lockheed (1976), si chiamava “corruzione impropria”. Cioè non concernente atti contrari ai doveri di ufficio.

Poi venne Di Pietro e la giurisprudenza a un tanto al chilo in cui la magistratura “finalmente” poteva applicarsi, come in Iran e in Arabia Saudita, alla promozione della virtù e alla repressione del vizio.

Da quel momento quasi tutti i “pesci italiani” sono stati costretti a nuotare in acque troppo limpide per sopravvivere. E il risultato è sotto gli occhi di tutti.