1° Maggio tutti i giorni, senza retorica, cortei e senza concertone

Parliamo volutamente, per coerenza con il titolo dell’articolo, del primo maggio solo dopo qualche giorno dalla ricorrenza della “festa del lavoro”, che si celebra appunto il primo maggio, ma che tutto è, tranne che una festa considerata l’assenza del festeggiato, il lavoro.

Rimane il fatto che almeno il primo maggio le autorità, la politica, la stampa, la televisione e anche i sindacati parlano per tutta la giornata della mancanza del lavoro, dei giovani che se ne vanno dall’Italia perché non vedono nel bel paese il loro futuro, delle grandi crisi aziendali tipo Alcoa, Alitalia o Ilva che vedranno sbattere sulla strada decine di migliaia di lavoratori non tanto giovani da potersi ricollocare (per colpa di una politica incapace di dare risposte adeguate).

Insomma almeno una volta l’anno, come avviene l’otto marzo per la festa della donna, si parla di un tema per poi riporlo nel cassetto del dimenticatoio per altri 364 giorni.

Questo primo maggio 2018 poi stato, inoltre, caratterizzato dalla crisi politica che da due mesi vede i partiti incapaci di dare un governo al nostro Paese nonostante il risultato del 4 marzo abbia dato indicazioni precise e di indubbia interpretazione.

Anche al Quirinale il primo maggio, giorno dedicato ai Maestri del Lavoro che ricevono l’onorificenza direttamente dalle mani del Presidente della Repubblica, sembrava che il problema del lavoro fosse il primo e più grave problema da risolvere.

Abbiamo visto politici ai cortei sindacali, anzi al corteo sindacale di Prato organizzato da Cgil, Cisl e Uil, sindacalisti come il segretario dell’Ugl Paolo Capone che si aggirava tra le oltre mille sagome di cartone in una piazza romana forse per carenza di “popolo vero” (ma se i lavoratori attivi sono sempre meno numerosi anche Capone ha le sue ragioni), servizi televisivi che ogni anno dicono e trasmettono sempre la stessa lamentela di una festa del lavoro senza lavoro e poi, dulcis in fundo, il concertone di San Giovanni, dove la volgarità e la retorica del lavoro l’hanno fatta da padrone.

Tutto questo avviene in un giorno dove coloro che si mettono in prima fila nei cortei sindacali non sono stati capaci di opporsi (realmente) allo smantellamento di uno stato sociale, non sono stati capaci di opporsi (realmente) alla legge Fornero che ha creato gli esodati e penalizzato chi stava per godersi la meritata pensione, non sono stati capaci di difendere (realmente) i lavoratori dalle delocalizzazioni selvagge operate dalle multinazionali che prima hanno usufruito dei soldi dei contribuenti italiani e poi se ne sono andati dove “il costo del lavoro è più basso” lasciando per la strada centinaia di migliaia di lavoratori italiani.

Non c’era proprio niente da festeggiare il primo maggio ma solo da ricordare e commemorare come si fa per il due novembre per i nostri defunti e questo primo maggio era dedicato proprio a quei lavoratori che hanno perso la vita sui posti di lavoro.

Se, però, si volesse dare una risposta ai giovani in cerca di lavoro e ai meno giovani che il lavoro lo hanno perso o stanno per perderlo, allora il primo maggio dovrebbe essere “festeggiato” tutti i giorni per fare in modo che il lavoro sia veramente il primo dei problemi da risolvere e per fare in modo che i nostri figli possano guardare ad un futuro entro i confini nazionali senza cercare avventure in altri paesi europei e non, che i meno giovani non debbano sentirsi sempre con un piede fuori dall’impresa e che anche gli imprenditori possano trovare lo stimolo per investire sul territorio senza essere soffocati da una tassazione che uccide imprese e purtroppo, in alcuni casi, anche gli uomini.

Il lavoro come patrimonio comune di impresa e lavoratore, così come previsto dall’articolo 46 della nostra Costituzione, deve essere al centro di una riflessione, come ha scritto il segretario generale di Confintesa Francesco Prudenzano, di tutti gli attori e visto come lo strumento per il rilancio della nostra economia.

I giovani si facciano carico di questo messaggio invece di farsi usare per fare numero in piazza san Giovanni e magari, senza fare le “dieci rivoluzioni russe” che ha auspicato, forse giustamente, il filosofo Diego Fusaro, trovino la forza di reagire altrimenti saranno destinati sempre in maggior numero ad espatriare.

Non lo possiamo permettere perché, come ha scritto la giornalista Flavia Perina, “la Repubblica è davvero fondata sul lavoro, gli italiani restano grandi lavoratori, capaci di attraversare i confini pur di lavorare, e se un problema c’è non è certo lo smarrimento della cultura del lavoro ma l’incapacità di chi governa il Paese di dargli uno sbocco dentro i confini nazionali”.

Commenti

  1. D’accordo su tutto quanto qui denunciato meno che su un punto. Difatti, a mio modesto parere, non è vero che i sindacati “non sono stati capaci di opporsi (realmente) allo smantellamento di uno stato sociale”; non è vero che “non sono stati capaci di opporsi (realmente) alla legge Fornero che ha creato gli esodati e penalizzato chi stava per godersi la meritata pensione”; non è vero che “non sono stati capaci di difendere (realmente) i lavoratori dalle delocalizzazioni selvagge operate dalle multinazionali che prima hanno usufruito dei soldi dei contribuenti italiani e poi se ne sono andati dove “il costo del lavoro è più basso” lasciando per la strada centinaia di migliaia di lavoratori italiani”.
    Non si tratta, infatti, di incapacità sindacale ma più semplicemente di acquiescenza e complicità coi poteri forti sovranazionali che dirigono l’economia e le sorti del lavoro nazionale e internazionale da qualche decennio. Acquiescenza e complicità che permettono loro di tirare a campare e di far quattrini in quel sistema marcio e corrotto di cui sono parte integrante. Acquiescenza e complicità attraverso le quali hanno potuto trasformare le traballanti e oramai anacronistiche strutture pseudo sindacali in centrali aziendali del profitto dove la maggior parte dei proventi vengono loro elargiti dall’amministrazione pubblica per l’erogazione dei c.d. servizi sociali (Caf, enti di patronato, e altri orpelli di c.d. assistenza sociale). E chissenefrega delle problematiche del lavoro! Acquiescenza e complicità attraverso le quali molti di questi parassiti hanno costruito le proprie carriere politiche.
    Completamente assenti le battaglie nelle piazze, nessun segno di sciopero ad oltranza, nessuna occupazione di aziende in delocalizzazione, nessuna prova di forza. Niente di niente. Solo firme a ripetizione, col sorriso sulle labbra, apposte con disinvoltura su ogni diktat che viene loro fatto trangugiare, sia esso di provenienza pubblica o privata, che lorsignori spacciano poi per “accordo tra le parti sociali”. Lo abbiamo visto per la criminale legge Fornero o per l’altrettanto delinquenziale Jobs Act, fino al totale annientamento dello Statuto dei lavoratori.
    L’attenzione e la considerazione che queste emerite canaglie meriterebbero dalla categoria dei lavoratori, ormai in estinzione, si può riassumere in questa semplice espressione d’altri tempi:
    “dito sul grilletto e occhio all’otturatore”.

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