
ACCIAIO, IL DOPPIO ERRORE DI BRUXELLES: COSÌ L’EUROPA DIFENDE I PRODUTTORI E UCCIDE I TRASFORMATORI
Bruxelles ci ricasca. Dopo aver partorito un meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere (CBAM) che di fatto penalizza i produttori europei senza frenare davvero le importazioni sporche, la Commissione europea ha deciso di completare l’opera annunciando il raddoppio dei dazi sull’acciaio – dal 25% al 50% – e il taglio drastico dei contingenti tariffari a dazio zero, da 40 a 18,3 milioni di tonnellate. Tradotto: solo il 10% del mercato siderurgico europeo resterà aperto alla concorrenza internazionale. Tutto il resto sarà blindato in nome della “protezione strategica” del settore.
Una protezione che, però, rischia di trasformarsi nell’ennesimo boomerang industriale. Perché l’aumento dei dazi e la riduzione delle quote importabili a costo zero non fanno altro che gonfiare i prezzi dell’acciaio, già penalizzati da energia cara e domanda debole, mettendo in ginocchio le imprese manifatturiere che di quel metallo vivono: dalla meccanica all’automotive, fino all’impiantistica.
Le associazioni europee del settore – da EUROMETAL a EURANIMI, da ASSOFERMET a ACEA – lo hanno detto chiaramente: così si tutela la siderurgia di base, ma si abbandona al suo destino l’industria di trasformazione, cioè quella parte della filiera dove si gioca davvero la competizione globale. Mentre in Asia e negli Stati Uniti si difende la manifattura con politiche industriali coordinate, l’Europa continua a procedere a colpi di misure parziali, scollegate e spesso contraddittorie.
E come se non bastasse, la Commissione ha deciso di rendere permanente la misura. Una scelta che, se confermata dal Parlamento e dal Consiglio, rappresenterebbe un cambio di paradigma: non più difesa temporanea, ma protezionismo strutturale. Peccato che Bruxelles non mostri la stessa determinazione nel colmare la più grande falla del CBAM, quella che consente ai prodotti finiti extra-UE di entrare liberamente nel mercato europeo senza sostenere i costi della CO₂, pur essendo realizzati con materiali altamente emissivi. Un paradosso che regala un vantaggio competitivo ai produttori esteri e punisce chi produce o assembla in Europa.
Eppure, la stessa Commissione nel suo Steel and Metals Action Plan del marzo scorso aveva promesso di proporre entro fine anno l’estensione del CBAM ai prodotti derivati dall’acciaio, proprio per evitare che le emissioni “fuggissero” a valle, attraverso le importazioni di manufatti. Promessa, al momento, tradita.
Da Roma, il Parlamento aveva già dato una chiara indicazione con la mozione Casasco approvata nell’aprile 2024: spingere in sede UE per correggere le distorsioni del CBAM ed estenderlo ai prodotti finiti. Oggi quella indicazione torna di drammatica attualità.
Perché la vera partita, caro ministro Urso, non si gioca nei forni delle acciaierie ma nelle officine, nei capannoni e nei distretti dove l’acciaio prende forma, valore e occupazione. Difendere l’acciaio sì, ma non a scapito di chi lo trasforma.
Il governo italiano dovrebbe quindi pretendere da Bruxelles una doppia correzione di rotta: da un lato, garantire contingenti tariffari a dazio zero più ampi e calibrati sulle reali necessità dell’industria manifatturiera; dall’altro, estendere il CBAM ai prodotti finiti, chiudendo le falle che consentono oggi alle merci extra-UE di aggirare i costi della transizione verde.
Senza queste due mosse, la “protezione” di Bruxelles rischia di trasformarsi nell’ennesimo favore ai giganti dell’acciaio e nell’ennesima condanna per la manifattura europea. Perché difendere solo la base e sacrificare il valore aggiunto equivale a segare il ramo su cui siede l’intera economia del continente.
LA SASSATA

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