
Germanexit: se il vento dell’uscita dall’euro comincia a soffiare da Berlino
Ecco che dagli ambienti finanziari tedeschi iniziano ad arrivare messaggi che, fino a pochi anni fa, sarebbero stati bollati come eresia. L’idea di un’uscita della Germania dall’euro — il cosiddetto Germanexit — non è più un tabù. E se a evocarla non è un qualche economista marginale di provincia, ma un analista ben introdotto e molto vocal su X come Robin Brooks, senior fellow presso la Brooking Institution, da sempre fiero rappresentante dei falchi tedeschi, allora la cosa va presa sul serio.
Fa però sorridere — amaramente — il fatto che un tema da sempre considerato impronunciabile in Italia, e che valeva la scomunica immediata per chiunque osasse anche solo sfiorarlo, diventi ora oggetto di discussione libera e legittima in Germania. Mentre da noi ancora si parla di “irreversibilità della moneta unica”, a Berlino qualcuno comincia a chiedersi se non sia arrivato il momento di separarsi civilmente, come in un divorzio consensuale.
Il ragionamento, per quanto urticante, fila. Secondo la tesi che circola negli ambienti finanziari tedeschi, l’euro è diventato una gabbia che blocca tutti: i Paesi del Sud, sommersi dai debiti, e quelli del Nord, costretti a finanziarli. L’unione monetaria, nata per convergere, ha prodotto divergenza strutturale. E oggi, di fronte a guerre, dazi, mercantilismo cinese e stagnazione economica, ciò di cui l’Europa avrebbe bisogno non è “più unione”, ma più spazio fiscale.
Spazio che però non c’è. L’invasione russa dell’Ucraina lo ha mostrato in modo imbarazzante: Spagna e Italia, pur con economie gigantesche, non sono in grado di sostenere Kiev in proporzione al loro peso economico. Al contrario, i minuscoli Paesi baltici, sommando le forze, danno quanto Roma o Madrid. È la dimostrazione plastica che i Paesi del Sud hanno finito la benzina fiscale, mentre il Nord è stanco di pagare il conto.
Da qui la provocazione: se la Germania uscisse dall’euro, tutti guadagnerebbero margine di manovra. La periferia potrebbe ristrutturare il debito e tornare a crescere, Berlino si libererebbe dal ruolo di “garante involontario” dei conti altrui e potrebbe finalmente concentrarsi sulla sua economia reale e sulla difesa comune contro la Russia. Certo, il passaggio sarebbe complesso — ma non necessariamente caotico. Come in ogni separazione, basta volerla gestire con intelligenza e non con rancore.
L’euro, dicono i tedeschi, non è più un progetto economico ma un dogma politico. E come tutti i dogmi, quando non funziona, finisce per alimentare risentimento e ipocrisia. Le élite della periferia non romperanno mai la moneta unica, perché ne traggono beneficio; ma se fosse la Germania a “staccare la spina”, lo farebbe in nome del realismo, non dell’antieuropeismo.
Fa effetto che proprio da Berlino — dove l’euro era nato come strumento di potenza — parta ora il dibattito sulla sua dissoluzione ordinata. E fa ancor più effetto che in Italia, dove la moneta unica ha rappresentato vent’anni di stagnazione, nessuno osi ancora dire a voce alta ciò che i tedeschi cominciano a pensare a mezza bocca.
Forse, come spesso accade, saranno loro a decidere anche questa volta per noi.


