
Clima, auto e industria: l’Europa rivede la rotta tra flessibilità ambientale e protezionismo industriale
L’Unione Europea resta impegnata nell’obiettivo di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040, ma introduce margini di flessibilità che segnano una svolta politica significativa. I ministri dell’Ambiente riuniti a Bruxelles hanno concordato l’inserimento di “clausole di salvaguardia”, le cosiddette brake clauses, che consentiranno di rivedere i target se gli assorbimenti naturali di carbonio non si riveleranno sufficienti. È stata inoltre aperta la porta all’uso di crediti esteri per compensare parte delle emissioni e allo scambio di quote tra settori domestici come industria e agricoltura.
Una flessibilità che, secondo molti osservatori, comporta un rischio concreto di mancato raggiungimento degli obiettivi, ma riflette la realtà di un continente dove la priorità economica sta superando quella ambientale.
Il cambio di tono era già contenuto nel Rapporto Draghi sulla competitività europea del 2024, che non proponeva di abbandonare la transizione verde ma di integrarla con la politica industriale, delineando un “Clean Industrial Deal”: più investimenti pubblici, maggiore certezza regolatoria e una riconciliazione tra decarbonizzazione e competitività. Il messaggio è chiaro: senza una base produttiva solida, la transizione ecologica è insostenibile.
È nel settore automobilistico che le tensioni emergono con maggiore forza. Dopo la Germania, anche la Francia si dice pronta a rinviare l’obiettivo 2035 per lo stop ai motori termici, ma a condizioni precise: accettare più flessibilità solo in cambio di regole sul contenuto minimo europeo dei veicoli. L’idea, rilanciata dal CEO di Valeo Christophe Périllat, prevede che almeno il 75% del valore aggiunto di un’auto provenga dall’Europa, in analogia con le regole statunitensi per i veicoli nordamericani. Inoltre, Parigi vuole che alcune componenti critiche – batterie, semiconduttori, sistemi di trazione – siano prodotte in Europa, proponendo l’introduzione di “supercrediti CO₂”: ogni auto elettrica conforme ai criteri di contenuto locale varrebbe 1,2 auto nel calcolo dei target, consentendo di vendere meno EV per rispettare i limiti.
La posizione francese divide l’industria. Renault è favorevole, ma chiede un approccio pragmatico con il contenuto minimo calcolato sulla media delle vendite totali. Stellantis, più prudente, teme che le nuove regole rallentino la revisione complessiva dei target CO₂. Sul fronte tedesco, Ola Källenius, CEO di Mercedes e presidente dell’ACEA, ha avvertito che il local content può offrire un sollievo temporaneo, ma nel lungo periodo rischia di ridurre la competitività europea. I fornitori, invece, sostengono apertamente la linea di Parigi, vedendovi una difesa della produzione interna.
La Commissione europea sembra intenzionata a recepire parte delle richieste dell’industria nella proposta attesa per il 10 dicembre. Tra le modifiche più probabili figurano il principio di neutralità tecnologica, che permetterebbe di vendere veicoli ibridi o a “range extender” anche oltre il 2035, e la creazione di una nuova categoria di piccole auto con requisiti normativi semplificati. L’obiettivo è ridurre i costi di produzione da circa 20.000 a 15.000 euro, anche se la concorrenza dei modelli cinesi da 5.000 euro resta schiacciante.
Dietro la retorica della flessibilità si nasconde una guerra di sopravvivenza industriale. Senza interventi, la quota di auto europee vendute nel Vecchio Continente potrebbe scendere dal 70% al 50%, sotto la pressione dei costruttori cinesi. La Francia vuole trasformare la revisione dei target climatici in uno strumento di difesa economica, mentre la Germania spinge per un approccio più neutro e orientato alla tecnologia. Bruxelles, intanto, tenta un equilibrio difficile: mantenere la leadership climatica senza sacrificare la manifattura.


