Beppe Grillo e l’ipocrisia dell’uno vale uno
Se il figlio di Beppe Grillo, Ciro, è colpevole o meno, insieme ai suoi tre amici, del reato di stupro ai danni di una giovane studentessa italo-svedese, lo stabilirà la magistratura. Se il video in possesso della difesa decreterà la loro innocenza, lo sapremo nelle motivazioni della sentenza. Se il calvario giudiziario di Ciro Grillo dura da due anni riguarda solo i tempi imposti dal diritto. Se la ragazza ha denunciato otto giorni dopo il fatto e che poche ore dopo la violenza abbia praticato kitesurf sono fatti suoi.
Nessuno, neppure Grillo, dall’alto del suo piedistallo auto-costruitosi, può stabilire quanto tempo debba passare prima di una denuncia. E a nulla serve che sbraiti con la bava alla bocca, e rubizzo in volto proclami l’innocenza del figlio, ribadendo che i “tempi” non coincidono.
Fortunatamente, quelli restano personali, intimi. E di certo metabolizzare (se mai possa essere possibile) quanto accaduto è solo ed esclusivamente ad appannaggio della persona che ha subìto la violenza di gruppo.
Non serve ripetere che tuo figlio è innocente, che la ragazza era consenziente, che lui aveva 19 anni al momento del fatto e che si stava divertendo. Perché se si è maturi per guidare, organizzare un party, bere con gli amici e fare i cretini, allora lo si è anche per assumersi le proprie – eventuali – responsabilità di fronte alla legge.
Alla legge, Beppe. Non nella vetrina dei social, non nello schermo di uno smartphone, tantomeno nelle assurde parole di un padre che, nel tentativo di convincere il mondo dell’innocenza del figlio, lo ha involontariamente dato in pasto al tritacarne mediatico che lui stesso ha contribuito a creare.
Fatto a pezzi da quella logica del linciaggio che lo stesso Beppe, in combutta con la Casaleggio Associati, ormai vaticina da una decade e che ha portato il Movimento 5 Stelle al governo, talmente tanto abbacinato dal potere da averlo reso l’ombra di sé stesso che, all’occorrenza, si allea con la Lega, con il PD e con il governo dei migliori capeggiato da Mario Draghi. Tutto, pur di restare a galla.
Quello che più di ogni altra cosa stride nel video realizzato da Grillo, non sono tanto le parole ripugnanti che usa per insinuare (neanche troppo velatamente) che la ragazza stia dicendo il falso, è che la logica pentastellata dell’uno vale uno, che siamo tutti allo stesso livello, che quello che penso io non è superiore a ciò che pensano gli altri, è un gigantesco castello di sabbia, in parte già franato, ma che con il video viene completamente spazzato via.
Il senso intrinseco della dichiarazione di Grillo è: posso sputare veleno su chiunque, mettere alla gogna qualsiasi persona o partito politico, ma guai a toccare la mia famiglia, lì divento una belva. Facendo risalire a galla il maschilismo becero e misantropo che ha, da sempre, caratterizzato lui e una buona fetta del Movimento 5 Stelle ma che, in questi anni, gliene va dato atto, ha saputo vendersi bene.
Perché è questo quello in cui hanno creduto milioni di elettori, in un prodotto commerciale, in un programma d’azienda, in una manica di opportunisti capaci di farsi concavi e convessi all’occorrenza, e ciò spiega anche le timide difese di Paola Taverna e Vito Crimi mentre gli altri, Luigi Di Maio in testa, più furbescamente, si sono guardati bene dall’esprimere un giudizio.
E non perché nel Movimento ci sia libertà di pensiero, ma perché Di Maio & Co. non vedono l’ora di sganciarsi e abbandonare Grillo, ormai diventato una zavorra. Sanno che la loro compagine politica è alla canna del gas e per continuare a vivacchiare in Parlamento ben oltre la pensione devono, necessariamente, guardare altrove.
Grillo si lamenta delle lungaggini giudiziarie, ma il “suo” Movimento ha sempre perorato la causa dell’abolizione della prescrizione. Giuseppe Conte, il nuovo guru del Movimento, ha compreso lo sfogo del “padre”, ma Grillo, in questa circostanza, non è il padre di… è, e resta, un personaggio pubblico prestato alla politica che non ha proprio resistito alla lucetta rossa della telecamera, pur sapendo che avrebbe danneggiato il figlio.
È stato più forte di lui, non ce l’ha fatta, in preda ad un delirio di onnipotenza che non gli fa distinguere più la vita dal palcoscenico. Quasi quasi sarebbe stato preferibile che ne avesse discusso nelle sedi opportune, ovvero negli studi di Barbara d’Urso, dove tra opinionisti improvvisati, starlette da quattro soldi, macchine della verità dell’Alabama e luci accecanti, il suo sfogo avrebbe avuto la collocazione che merita.