La lunga marcia francese sugli asset italiani si scontra col tricolore della Meloni

La lunga marcia francese sugli asset italiani si scontra col tricolore della Meloni

14 dicembre 2025

C’è una storia che in Italia conosciamo fin troppo bene, ma che facciamo finta di dimenticare ogni volta: quella dei francesi che avanzano, pezzo dopo pezzo, sugli asset strategici del nostro Paese. Non con i carri armati, ma con i consigli di amministrazione. Non con le truppe, ma con operazioni finanziarie chirurgiche, silenziose, spesso benedette da una politica italiana distratta o, peggio, compiacente.

Luigi Bisignani, in un articolo lucidissimo pubblicato su Il Tempo, definisce senza giri di parole questa dinamica come una “lunga guerra Italia-Francia”, una battaglia che non si combatte solo sul piano industriale ma anche su quello giudiziario, mediatico e geopolitico. Una guerra fatta di “schema già visto: prima il movimento industriale, poi l’attivazione giudiziaria, infine lo storytelling del patto segreto”, come scrive Bisignani, fotografando un copione che si ripete da anni.

Dentro questo schema ci sono nomi e cognomi: banche, assicurazioni, energia, infrastrutture. Da Mediobanca a Generali, passando per dossier che riguardano risparmio, credito e controllo delle leve strategiche del Paese. Bisignani ricorda come la Francia abbia sempre considerato questi asset non come normali investimenti, ma come estensioni della propria proiezione di potere, utilizzando campioni nazionali e sponde istituzionali.

In questo contesto, il cambio di passo dell’attuale governo italiano appare tutt’altro che casuale. Per la prima volta dopo anni, si parla apertamente di difesa dell’italianità degli asset strategici, di golden power, di linee rosse da non superare. Non è nazionalismo da salotto: è semplice realismo geopolitico. Tutti difendono i propri interessi. I francesi lo fanno da sempre. L’Italia, invece, troppo spesso ha abbassato la guardia.

E qui arriviamo al punto dolente. Perché se oggi Parigi prova ad avanzare ancora, è anche perché in passato troppi italiani filo-francesi hanno svenduto pezzi di sovranità economica, presentando ogni cessione come “modernizzazione”, “integrazione europea”, “inevitabile apertura al mercato”.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: marchi storici, centri decisionali e risparmio nazionale finiti oltralpe.

Ora il gioco si ripete. La differenza, oggi, è che qualcuno ha iniziato a dire no (in attesa di dire no ai francesi anche sullo scandalo caso di Banco BPM che sta scivolando nelle mani di Agricole). E in un Paese abituato a cedere, anche questo semplice “no” suona come una sassata.