Errori giudiziari, quando la vittima appartiene alle Forze dell’ordine
Chiedete a una giovane recluta che si accinge ad entrare nelle Forze dell’ordine il perché di quella scelta. La risposta sarà questa: per un profondo senso di giustizia. Che, al netto di qualche raro caso, la accompagnerà fino al giorno della pensione.
Sia chiaro: le mele marce, nelle Forze dell’ordine come in qualunque altra categoria, ci sono sempre. Ma fidatevi, sono poche rispetto a chi questo mestiere lo fa con convinzione e con onestà. Nel nome, appunto, della legalità e del rispetto delle regole.
Immaginate, dunque, cosa può significare per persone che hanno fatto della giustizia una sorta di “missione” essere accusate ingiustamente di far parte dell’altra schiera. Quella dei cattivi. Dei delinquenti. Dei criminali.
Chiedetelo al poliziotto Angelo Cangianiello e al maresciallo dei Carabinieri Giuseppe Sillitti, le cui storie fanno rabbrividire. Situazioni kafkiane. Frutto a volte più di strumentalizzazioni mirate che di veri e propri “errori” giudiziari.
Cangianiello ha dovuto attendere 31 anni, un mese e quattro giorni prima che la verità venisse fuori. Arrestato per concorso in traffico internazionale di stupefacenti, fu torturato e costretto a confessare di essere un trafficante di droga. Carriera e reputazione distrutte. Oggi gestisce una tabaccheria.
La vicenda risale al 1986. Lui, poco più che ventenne, lavorava nell’ufficio scorte alla Presidenza del Consiglio. Una grande opportunità. Poi un giorno fu arrestato. Senza spiegazioni.
Portato in una stanza, un suo “collega” lo torturò. Letteralmente. «Tra una sessione e l’altra di domande da parte del sostituto procuratore, questo poliziotto mi picchiava ripetutamente. Schiaffi sul viso, pugni ai fianchi e allo stomaco. Mi stringeva i testicoli tra le mani con tutta la forza, urlavo per il dolore, mi veniva da piangere. In quelle condizioni, mi creda, chiunque sarebbe disposto ad autoaccusarsi di qualunque reato» raccontò all’indomani della sentenza di assoluzione, nel 2017 (l’intervista qui).
Un’inchiesta superficiale, piena di buchi, paradossi e contraddizioni. Eppure c’è voluta una vita prima che Cangianiello fosse riconosciuto estraneo ai fatti. O la macchina della giustizia spesso e volentieri prende cantonate clamorose o, più probabile, dietro a questa storia – purtroppo non l’unica – c’è una regia occulta. «Forse davo fastidio, ero bravo nel mio lavoro, avrei fatto carriera».
L’altro caso di malagiustizia è quello del maresciallo dei Carabinieri Giuseppe Sillitti, del quale si è occupata anche la trasmissione “Le Iene” nel 2016. I fatti risalgono invece al 2012, anno in cui si svolse un’operazione denominata “Reset”, frutto di un’indagine avviata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lucera coordinata da Domenico Seccia e dal suo fidatissimo pm, Alessio Marangelli.
Il servizio parte dall’incendio del ristorante del signor Enzo, a Lucera, nel foggiano, dopo appena un anno di attività. Il titolare assicura di non aver mai avuto richiesta di pizzo. Sicché il gesto risulta sin da subito inspiegabile. Il pm Marangelli era convinto che quell’incendio fosse il risultato di una “guerra” tra due organizzazioni criminali contrapposte. Enzo, il proprietario, comunica regolarmente con le Forze dell’ordine eventuali sospetti magari utili alle indagini.
Un giorno, però, accende la tv e al telegiornale scopre che i Carabinieri con i quali collaborava erano accusati di estorsione nei suoi confronti. Dei 13 arresti totali, quattro i Carabinieri della Compagnia di Lucera (Giuseppe Sillitti, Luigi Glori, Michele Falco e Giovanni Aidone) accusati di aver depistato le indagini per favorire estorsioni e controllare le attività commerciali di Lucera gestite dalle cosche locali.
Racconta Sillitti, oggi comandante della stazione Carabinieri di Apricena: «Fui arrestato alle 3 e mezzo di notte e tradotto a Santa Maria Capua Vetere […] Ci hanno perquisiti, spogliati, prelevate le impronte digitali, segnalati e buttati in una cella vuota per 24 giorni di cui 7 in isolamento. Il periodo più brutto della mia vita: da Carabiniere alla galera». Secondo il pm Alessio Marangelli i quattro Carabinieri all’epoca avrebbero favorito degli appartenenti al clan Ricci-Cenicola: «Addirittura ci accusava di essere in affari con loro».
Il Tribunale del Riesame, però, annulla totalmente l’ordinanza di custodia cautelare. La motivazione è banale quanto spiazzante: nessun contatto telefonico con gli appartenenti al clan, nessun contatto fisico e visivo, nessun rapporto economico.
Per la Corte di Assise di Bari l’accusa “si basa su incerte risultanze investigative”. Ma Marangelli non si arrende e, con un ricorso in Cassazione, si oppone alla scarcerazione. Il ricorso viene rigettato.
Vengono fuori intercettazioni telefoniche dai contenuti improbabili (le mere ipotesi sulle dinamiche dell’incendio discusse da Enzo e i Carabinieri vengono scambiate per ammissioni di colpa, tant’è che allo stesso proprietario viene contestato l’occultamento di prove. Addirittura spunta un super testimone con la vista di una lince, che afferma di aver visto chiaramente un incontro “sospetto” a occhio nudo a ben due chilometri di distanza…
Due anni di processo per arrivare ad una sentenza definitiva: tutti assolti. Nella sentenza si legge che tutta la vicenda è frutto “di una mera congettura degli inquirenti“. Marangelli è stato denunciato dal Carabiniere per falsi verbali, calunnia e intercettazioni abusive.
Ma è tutta qui la verità? Sillitti ha qualche sospetto. Legato ad un altro fatto che risale a quando il maresciallo lavorava con quel magistrato. Prima della vicenda, infatti, i due ebbero una discussione: bisognava installare una microspia nell’auto di un indagato. Per farlo, il Marangelli consigliò di procedere così: “«Fai una cosa: armi in pugno, passamontagna, rapina la macchina, fate quello che dovete fare e poi gliela fate trovare».
Insomma, chiese al maresciallo dei Carabinieri di compiere un reato. Lo dimostra un documento, nero su bianco: «Questa è la delega del magistrato… Io gli ho risposto: no! Sono un maresciallo dei carabinieri e non posso fare una cosa del genere». Tre mesi dopo Sillitti dovette affrontare quell’inferno. Una punizione o solo un errore? Chissà…