Giavazzi, Calenda e la crociata contro le Partecipate: la coerenza non è di casa, ma il piano è politico

Giavazzi, Calenda e la crociata contro le Partecipate: la coerenza non è di casa, ma il piano è politico

25 novembre 2025

L’intervento di Francesco Giavazzi pubblicato oggi sul Corriere – dove denuncia le rendite parassitarie del mercato elettrico e la difficoltà di riformarlo a causa delle lobby – sembrerebbe, a leggerlo distrattamente, un’analisi neutrale dei malfunzionamenti del settore. In realtà è molto più interessante come indizio politico.

Giavazzi, ex consigliere economico di Draghi e da sempre voce ascoltata in ambienti liberal-dem, arriva infatti sulle stesse posizioni che Carlo Calenda ripete da settimane: lo Stato-imprenditore come fonte di distorsioni, le Partecipate come “palle al piede” e la crisi industriale italiana come frutto di un dirigismo inefficiente.

Nulla di nuovo, se non fosse che oggi Calenda usa questa retorica come clava politica contro il Governo, sapendo benissimo che la crisi dell’industria è il punto più debole dell’esecutivo Meloni. Un terreno minato che porta un nome e un cognome: Adolfo Urso, titolare del Mimit e autore di una gestione definire dilettantesca è un eufemismo. Dalla paralisi dell’ex Ilva al disastro Stellantis, fino all’incapacità di tessere una politica industriale che sia qualcosa di più di conferenze stampa e annunci fumosi, Urso è ormai il simbolo di una stagione di improvvisazione.

Calenda ha fiutato l’occasione: battere il Governo dove fa più male, nel cuore dell’elettorato produttivo del Nord.

Ma c’è un piccolo problema: mentre scaglia invettive contro “lo statalismo” e denuncia “le rendite”, passa un giorno sì e l’altro pure a bussare alla porta di Palazzo Chigi chiedendo alla premier Meloni un favore molto meno nobile: uno sbarramento elettorale cucito su misura per farlo rientrare in Parlamento: 2, massimo 3%.

Un comportamento che definire schizofrenico è poco: Calenda combatte il Governo mentre chiede al Governo di salvarlo.

A sostenerlo in questa operazione ci sono i consueti agit-prop del Foglio – che da anni sognano un centrismo tecnocratico che gli elettori non hanno mai chiesto – e una piccola truppa di influencer politici su X che amplificano ogni suo sfogo come fosse la Verità Rivelata.

Non mancano nemmeno le curiose affinità elettive con “Ora”, il movimentino pseudo-grillino dei due improbabili pensionati di lusso Alberto Forchielli e Michele Boldrin: il populismo dei PhD, dove a cambiare rispetto ai grillini originari è solo il titolo accademico, non il livello di approssimazione.

Il disegno è chiaro: creare un Terzo Polo camaleontico, con una gamba a destra e una a sinistra, pronto a criticare tutti ma a trattare con chiunque pur di superare la soglia di sopravvivenza politica. Una riedizione aggiornata del renzismo, ma senza il talento comunicativo di Renzi e senza alcuna base sociale reale.

Alla fine, la domanda è una sola: quanto può durare l’operazione Calenda, cioè un progetto politico che pretende di rappresentare la modernità ma che sopravvive solo grazie a un possibile regalo normativo della maggioranza che dice di combattere? Una creatura che attacca il Governo per l’inefficienza delle partecipate, ma che non esisterebbe nemmeno se la premier non decidesse di tirargli una ciambella di salvataggio?

La risposta, a occhio, è semplice: durerà finché Meloni avrà convenienza a tenerlo in vita. Dopodiché, destinato come molti altri alla grande discarica del centrismo italiano.