
Hydro chiude Feltre: il funerale dell’estrusione italiana (e di chi l’ha svenduta)
La notizia è passata sotto traccia. La multinazionale Hydro ha deciso di chiudere cinque stabilimenti europei di estrusione, tra cui Feltre. Una notizia che in Italia passerà come una riga di cronaca industriale, ma che in realtà sancisce la morte dell’estrusione dell’alluminio nel nostro Paese. Feltre non era un impianto qualunque: era il simbolo assoluto di un settore strategico, un pilastro storico della manifattura italiana. Ora sparisce nel silenzio generale.
E questo è ciò che accade quando si imbocca, con l’ingenua allegria dei dilettanti, la strada della svendita degli asset strategici a investitori esteri, fingendo che globalizzazione e capitali stranieri siano sempre sinonimo di progresso. La verità è un’altra: quando un gruppo multinazionale decide di “ottimizzare il footprint”, la prima testa a saltare è quella del Paese politicamente più debole e industrialmente meno protetto. Cioè il nostro.
Il copione è lo stesso già visto con Ilva, regalata ad ArcelorMittal dal ministro Calenda, lo stesso che oggi posa da professorino e pontifica sulla grande politica industriale. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti: Taranto devastata, produzione azzerata, occupazione distrutta. Ora tocca all’alluminio, con Feltre che chiude mentre la politica nazionale balbetta, si distrae o fa finta di nulla.
La verità è che l’Italia non ha una politica industriale, non ha un presidio sugli asset strategici, non ha una visione. Abbiamo solo governi che applaudono quando un gruppo straniero “investe”, salvo poi svegliarsi quando quello stesso gruppo fa le valigie e spegne le luci. Hydro non fa eccezione: massimizza i profitti, taglia dove conviene, e lascia sul territorio macerie industriali e sociali.
Feltre non è una notizia. È un campanello d’allarme. E l’ennesima dimostrazione di come l’Italia, se continua così, rischia di ridursi a un Paese senza industria e senza voce. Ma con tanti professorini, quello sì.


