La Francia flirta con la nazionalizzazione dell’acciaio. E l’Italia? Applaude o finge di non vedere

La Francia flirta con la nazionalizzazione dell’acciaio. E l’Italia? Applaude o finge di non vedere

26 novembre 2025

In Francia succede ciò che in Italia non si osa nemmeno pensare: la commissione Finanze dell’Assemblée nationale ha dato il via libera alla proposta di LFI per nazionalizzare gli asset francesi di ArcelorMittal. Tre miliardi stimati, una battaglia politica frontale, la deputata Aurélie Trouvé che accusa il gruppo di aver delocalizzato e preso sussidi senza modernizzare, e ArcelorMittal France che reagisce con toni da ultimatum, avvertendo che tagliare Parigi dal gruppo internazionale sarebbe un suicidio industriale.

Fin qui la cronaca d’Oltralpe. Ma la domanda vera riguarda noi.

Mentre i francesi, nel bene o nel male, discutono se prendersi l’acciaio e con quali soldi, in Italia si continua a galleggiare tra decreti, commissari, annunci di “decarbonizzazione” e miracolismi di Stato per tenere in piedi l’ex Ilva. Roma ha persino steso il tappeto rosso al progetto ucraino di Metinvest a Piombino — dove per ora c’è solo un prato — infilando un dito nell’occhio dell’unico player che avrebbe la forza industriale per risollevare Taranto: Arvedi. Una mossa sconsiderata che sta creando una frattura instabile tra Governo e Federacciai.

In Francia si discute di politica industriale: chi paga, cosa produce il Paese, come si protegge un settore strategico dalla concorrenza globale. In Italia la parola “nazionalizzazione” viene utilizzata solo come insulto, mentre si lascia marcire un impianto essenziale alla manifattura nazionale fingendo che bastino un decreto e qualche slogan green per far tornare i conti.

La verità, che a Parigi hanno almeno avuto il coraggio di dire, è che l’acciaio europeo non sopravvive senza scelte politiche nette. Non basta recitare la litania della decarbonizzazione: bisogna decidere chi la finanzia, quanto costa e soprattutto se l’Italia vuole ancora produrre acciaio o preferisce importarlo dalla Cina per poi lamentarsi del dumping.

La Francia la discussione l’ha aperta. L’Italia continua a girarsi dall’altra parte, sperando che il problema scompaia da solo.

Quando arriverà il conto — sociale, industriale, politico — non basterà un post indignato su LinkedIn per fingere sorpresa.