Legge Fornero, cancellarne gli effetti deleteri (già consumati) non vuol dire abrogarla

Legge Fornero, cancellarne gli effetti deleteri (già consumati) non vuol dire abrogarla

09 gennaio 2018

In questi giorni c’è un forte dibattito sull’accordo raggiunto tra Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini che sancisce la resurrezione della coalizione di centrodestra, soprattutto in ordine alle dichiarazioni di vittoria di Salvini rispetto l’abolizione della legge Fornero che è stata la pregiudiziale politica posta dal leader della Lega per far parte della coalizione.

E’ stato lo stesso segretario della lega a comunicare che nel programma di governo del centrodestra ci sarebbe stata l’abolizione della legge Fornero. Lo ha fatto con un tweet messo in rete alle ore 5:49 del pomeriggio di domenica 7 gennaio, praticamente appena fuori del cancello di Villa San Martino ad Arcore. Il messaggio era il seguente: “Cancellazione della legge FORNERO nel programma del centrodestra: missione compiuta.#4marzovotoLega”.

Rivendicando le battaglie giornalistiche fatte contro l’approvazione della legge che porta il nome della professoressa Fornero e, ritenendo che il male peggiore di quella legge non era l’innalzamento dell’età pensionabile ma il metodo con il quale questo requisito diveniva immediato e penalizzante per molti lavoratori, è bene chiarire alcune cose.

Dobbiamo ricordare che la legge Fornero rispondeva ad un requisito, per l’innalzamento dell’età, che era stato già “giuridicamente istituzionalizzato” e che portava il nome di “adeguamento alle speranze di vita”. In parole povere, considerato che, fortunatamente, la vita delle persone si è allungata, anche il periodo di accesso al beneficio pensionistico doveva adeguarsi a questo “privilegio” che la vita “concede” agli Italiani.

Ora in tanti dimenticano, però, che il principio di “adeguamento (dell’età pensionabile) alle speranze di vita” non porta la firma della Fornero ma era stato introdotto dalla riforma previdenziale del Ministro del Welfare, del governo di centrodestra, Maurizio Sacconi con l’aggravante che il ministro Sacconi spostando in avanti di un anno (dal momento della maturazione del diritto) l’accesso alla pensione, aveva già fortemente penalizzato coloro che erano usciti dalle imprese, con accordi congiunti tra azienda e lavoratore, percependo una buona uscita che permetteva alle aziende di licenziare a fronte di una somma versata ai lavoratori che copriva, però, solo una parte del salario annuo che avrebbero percepito se fossero rimasti in servizio.

Di fatto coloro che venivano messi in mobilità per tre anni, trascorsi i quali avrebbero percepito la pensione, si sono visti allungare il periodo di mobilità perdendo così sia lo stipendio che la pensione di un intero anno. Sono questi gli esodati, a chi è andata bene per un solo anno, ante litteram.

La legge Fornero innalzando da un giorno all’altro l’età pensionabile ha invece creato quel disastro sociale dei 350 mila esodati che si sono ritrovati senza stipendio e nell’impossibilità di essere considerati pensionati. Eccolo il vero guasto di quella legge.

Oggi tutti sanno che i vincoli di età per gli esodati targati Fornero sono in parte superati grazie alle otto salvaguardie che comunque, dai dati Inps, lascerebbero fuori ancora 17 mila lavoratori considerati ancora esodati e che dal 2012 sono costretti a vivere, se non si sono suicidati prima come purtroppo è avvenuto, in condizioni di estremo disagio sociale ed economico.

Nel 2018 i requisiti per l’accesso alla pensione sarebbero, dunque, gli stessi della riforma Sacconi ed il problema non è tanto quello dell’età quanto quello del fatto che le persone che oggi hanno dai 60 ai 65 anni probabilmente, nella stragrande maggioranza, non raggiungono i 42 anni e 10 mesi previsti dai requisiti contributivi e percepirebbero una pensione notevolmente decurtata rispetto a quella prevista prima delle riforme Sacconi/Fornero.

Oggi, invece, Salvini ritiene che abolendo la legge Fornero e riportando tutti ai famosi 35/40 anni di contribuzione e 60 anni di età per l’accesso si risolva il problema. Giorgia Meloni, più coerentemente e realisticamente, ha sempre parlato del fatto che “la legge Fornero non ha modificato il sistema pensionistico ha anticipato, per una serie di persone, il sistema pensionistico che vige per le altre” facendo riferimento appunto alla riforma Sacconi.

Il presidente Silvio Berlusconi, invece, parlando su Radio Capital ha dichiarato:”Con la Lega abbiamo parlato di come superare quegli aspetti della legge Fornero che, tra l’altro, sono già stati rivisti. Faremo un esame preciso ed elimineremo quegli aspetti che ci sembrano ingiusti. Non la aboliremo, interverremo dove e è giusto intervenire”.

Quindi il “capo” della coalizione, sposando la tesi di Giorgia Meloni, conferma che non ci sarà nessuna abrogazione della Fornero ma solo “l’eliminazione di quegli aspetti che ci sembrano ingiusti”.

Insomma per noi sarebbe facile dire che l’avevamo detto prima del vertice di domenica scorsa (leggi qui) ma ci limitiamo ad affermare che se la politica si basa sul ragionamento e non solo sugli slogan era facile prevedere quello che è poi stato scritto sul comunicato congiunto diramato al termine dell’incontro di Arcore tra i tre leader del centrodestra che parla di “revisione del sistema pensionistico cancellando gli effetti deleteri della Legge Fornero” e non di abrogazione.

Precisato questo dettaglio, non indifferente per capire cosa succederà nel caso di prevista vittoria del centrodestra il 4 marzo prossimo, ci domandiamo se per “aspetti che ci sembrano ingiusti” rientrano anche tutti quei 350 mila lavoratori che, chi più chi meno, hanno perso anni di salari e/o pensioni (circa 25/30 mila euro l’anno) grazie alla Fornero e se non sia il caso di allargare la platea di coloro che non possono certo rimanere fino a 67 anni a fare lavori usuranti.

Non ci nascondiamo dietro ad un dito e siamo certi di dire una ragionevole verità se affermiamo che ad oggi non riteniamo che, abolendo “sic et simpliciter” la legge Fornero, coloro che potrebbero andare in pensione a 60 anni o giù di li possano contare su una contribuzione sufficiente che garantisca loro un assegno pensionistico “competitivo” con il salario che, per chi il lavoro ce l’ha, percepiscono alla fine del mese.

La speranza è invece quella che si intervenga sulle pensioni d’oro perché, come ha più volte denunciato Giorgia Meloni, 170 mila pensionati costano 13 miliardi di euro l’anno a fronte degli 8 milioni di “normali pensionati” che costano 30 miliardi l’anno.

Questo è l’aspetto ingiusto di un sistema che permette al 2,1% dei pensionati di costare il 30% del costo complessivo delle pensioni erogate in Italia. Non si abbia paura di colpire quelle 8000, tra pensioni e vitalizi, che hanno un costo annuo altissimo che si aggira sul miliardo e trecentomila euro e si restituisca, invece, come ha chiesto la Corte Costituzionale, l’adeguamento al costo della vita anche alle pensioni che arrivano alle 2.500/3.000 euro nette al mese.

Siamo solo all’inizio della campagna elettorale e già vediamo e ascoltiamo che anche a sinistra si fa a gara con promesse che non hanno nulla di sensato e tante ne sentiremo ancora in questi quasi tre mesi.

La paura è che questa tornata elettorale la vinceranno quelli che non promettono, quelli che non appaiono, quelli che subiscono inermi, che sono poi quelli che non andranno a votare.